Negli ultimi giorni sta facendo molto scalpore l'anticipazione del libro che uscirà la prossima settimana edito da Einaudi "Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento", scritto dallo storico Sergio Luzzatto. Luzzatto nella sua opera si serve di documenti inediti andati a ricercare nell'archivio vaticano della Congregazione per la Dottrina della Fede.
La figura del Santo ne esce "ammaccata" paragonabile ad un impostore o ad un malato psichiatrico.
Di questo ne era convinto sicuramente Papa Giovanni XXIII, il cosiddetto "Papa Buono" che così non pare nei giudizi sprezzanti che rivolge nei confronti del venerato frate.
In quattro foglietti scritti il 25 giugno 1960, scrive: «Con la grazia del Signore io mi sento calmo e quasi indifferente come innanzi ad una dolorosa e vastissima infatuazione religiosa il cui fenomeno preoccupante si avvia ad una soluzione provvidenziale. Mi dispiace di P.P. che ha pur un’anima da salvare, e per cui prego intensamente». Poi continua definendolo "immenso inganno": «L’accaduto—cioè la scoperta per mezzo di filmine, si vera sunt quae referentur, dei suoi rapporti intimi e scorretti con le femmine che costituiscono la sua guardia pretoriana sin qui infrangibile intorno alla sua persona— fa pensare ad un vastissimo disastro di anime, diabolicamente preparato, a discredito della S. Chiesa nel mondo, e qui in Italia specialmente. Nella calma del mio spirito, io umilmente persisto a ritenere che il Signore faciat cum tentatione provandum, e dall’immenso inganno verrà un insegnamento a chiarezza e a salute di molti».
Perché Giovanni XXIII, l'uomo del dialogo, dell'apertura e dell'accoglienza per eccellenza, parla del futuro Santo Padre Pio come una delle tante tentazioni con le quali Dio ci mette alla prova? L'astio forse era giustificato dalle dure relazioni che gli giungevano in Vaticano? Forse.
Ma il Papa da sempre non poteva vedere il frate. Già negli anni '20, quando come responsabile della missione di "Propaganda Fide" dovette girare per ben due volte la Puglia, se ne guardò bene di andare a San Giovanni Rotondo.
A dividerli profondamente era soprattutto il modo di vivere la propria religiosità. Mentre Padre Pio rappresentava una visione ascetica, quasi medievale in quanto esaltava l'importanza della sofferenza corporea, Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, rappresentava una credenza gioiosa, vicina agli ultimi, accogliente e aperta al dialogo. Memorabile è la sua frase pronunciata l'11 ottobre 1962 al termine del giorno di apertura del Concilio Vaticano II, il celebre "Discorso della Luna": «Tornando a casa, troverete i bambini, date una carezza ai vostri bambini e dite: questa è la carezza del Papa. Troverete qualche lacrima da asciugare: dite una parola buona. Il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e dell'amarezza».
Da questo si comprende poi un altro severo giudizio dato sempre nei confronti di "P.P.": «P.P. si rivela un idolo di stoppa».
Ma a suscitare dubbi sulla figura del Santo sono ben altri documenti storici, impossibili da smentire.
A quanto pare il frate faceva regolarmente uso di acidi e veleni in quantità enormi, talmente nocive alla pelle da poter provocare delle forti escoriazioni. A rendere questa testimonianza direttamente all'allora Vescovo di Foggia Monsignor Salvatore Bella, sono due buoni cristiani, l'uno il dottor Valentini Vista titolare di una farmacia, l'altro la sua cugina ventottenne Maria De Vito.
Entrambi erano molto devoti al frate con le stigmate e quindi non si possono accusare di far parte dei tanti che hanno sempre provato disprezzo nei suoi confronti.
Il primo documento riporta la testimonianza del dottor Valentini Vista che inizia con la descrizione dell'inizio della sua devozione nei confronti del frate. Il 28 settembre 1918 muore tragicamente suo fratello, probabilmente a causa dell'epidemia di spagnola e per questo chiede speranzoso che Padre Pio possa intercedere per la sua anima.
Andando al dunque, la cugina Maria De Vito, che allora aveva ventotto anni, alla fine dell'estate del 1919 si reca in pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo dove vi rimane per un po' di tempo.
Quando ritornò a Foggia, la cugina fece delle richieste un po' strane per conto di Padre Pio. Eccole descritte direttamente dal dottore: «Quando ella tornò a Foggia mi portò i saluti di Padre Pio e mi chiese a nome di lui e in stretto segreto dell'acido fenico puro dicendomi che serviva per Padre Pio, e mi presentò una bottiglietta della capacità di un cento grammi, bottiglietta datale da Padre Pio stesso, sulla quale era appiccicato un bollino col segno del veleno (cioè il teschietto di morte) e la quale bottiglietta io avrei dovuto riempire di acido fenico puro che, come si sa, è un veleno e brucia e caustica enormemente allorquando lo si adopera integralmente. A tale richiesta io pensai che quell'acido fenico adoperato così puro potesse servire a Padre Pio per procurarsi o irritarsi quelle piaghette alle mani».
Cosa servivano circa cento grammi di acido fenico puro? Per procurarsi le ferite alle mani?
Già da tempo circolavano voci sull'improprio utilizzo di questa sostanza da parte del frate. Nella primavera del 1919 sul "Mattino di Napoli" uno scienziato, il professor Morrica, sollevò molti dubbi sulle presunte stigmate di Padre Pio.
Tuttavia in quell'occasione, il dottor Valentini Vista lo accontentò «trattandosi di Padre Pio».
Sennonché qualche settimana dopo gli giunse, sempre attraverso la cugina, un'altra strana richiesta: quattro grammi di veratrina.
Quindi altra sostanza nociva fortemente corrosiva. Se Padre Pio l'avesse voluta utilizzare per scopi terapeutici, la quantità utilizzabile è dell'ordine di uno fino a cinque milligrammi: «Si parla dunque di milligrammi! La richiesta di Padre Pio fu invece di quattro grammi!».
Il dottore fu seriamente preoccupato da questo fatto e all'inizio si confidò solamente con la cugina. L'imminente trasferimento del Monsignor Salvatore Bella lo fece desistere dal mantenere il segreto, «per scrupolo di coscienza» e nell'«interesse della Chiesa».
Il secondo documento invece riguarda questa volta la cugina del dottore, Maria De Vito. Questa nuova testimonianza confermò tutto. Nell'estate del 1919 trascorse un mese a San Giovanni Rotondo. Lì entrò in stretto contatto con Padre Pio che la chiamò «in disparte» e parlato «con tutta segretezza», imponendole di mantenere anche lei il segreto «in relazione anche agli stessi frati suoi confratelli del convento».
Le diede una boccetta vuota chiedendole di riempirla con dell'acido fenico per poi rimandargliela indietro per «mezzo dello chauffeur che prestava servizio nell'autocarro passeggeri da Foggia a S. Giovanni». La sua giustificazione era che gli serviva «per la disinfezione delle siringhe occorrenti alle iniezioni che egli praticava ai novizi di cui era maestro».
Un mese dopo, un penitente che ritornava dal suo pellegrinaggio a San Giovanni Rotondo, le chiese da parte del frate quattro grammi di veratrina ma a quel punto il dottor Valentini Vista le suggerì di non mandare più niente a Padre Pio e di mantenere il segreto.
Ma il documento fondamentale, quello che probabilmente convinse subito Monsignor Salvatore Bella a inoltrate tutto al Sant'Uffizio, è la richiesta dell'acido fenico scritta direttamente da Padre Pio. Sulla busta è scritto: «Per Marietta De Vito, S.P.M.». All'interno una letterina autografa con su scritto: «Carissima Maria, Gesù ti conforti sempre e ti benedica! Vengo a chiederti un favore. Ho bisogno di aver da duecento a trecento grammi di acido fenico puro per sterilizzare. Ti prego di spedirmela la domenica e farmela mandare dalle sorelle Fiorentino. Perdona il disturbo».
Che cosa se ne faceva Padre Pio di queste sostanze? Se veramente servivano per scopi leciti, perché tanta segretezza? Perché non le ha richieste regolarmente con una ricetta?
Mistero.
martedì 30 ottobre 2007
Padre Pio, Santo o impostore?
Pubblicato da Giovanni Tonetti alle 08:40
Etichette: Arte Cultura e Cinema, Costume Società e Religione, cronaca
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1 commenti:
GRANDE!
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